
i Cacciagalli. Un esempio virtuoso di hospitality all’interno di un’azienda vitivinicola.
Nessuna blasfemia, i Cacciagalli è una e trina: cantina, ristorante, wine resort, tra filiera corta e prodotti di eccellenza. Tra cui vini orange.
Un fine dining in acclarata crisi, con alcune cause ancora da accertare, e pizzerie che a ogni premio o incremento di visibilità aumentano i prezzi costituiscono i due becchi di una tenaglia che evidenzia sintomi di malessere nella ristorazione.

A fronte di ciò, attualmente minuscole nicchie, ma con plausibili segnali di crescita, sta cominciando a emergere la ristorazione all’interno di aziende vitivinicole. Il territorio è posto al centro dell’esperienza gastronomica grazie all’evidenza della filiera corta e si può parlare di calici il cui contenuto, sebbene non obbligatoriamente, è a km zero.

Interessante e piacevole, a tale proposito, l’esperienza vissuta nell’azienda vitivinicola i Cacciagalli, a Teano, nell’alto casertano, alle falde del vulcano spento di Roccamonfina, in quella che gli antichi romani chiamavano Campania Felix, un’area ancora oggi capace di dare origine a prodotti di eccellenza.


L’azienda i Cacciagalli rappresenta il cammino di vita che insieme hanno coraggiosamente intrapreso Diana Iannaccone, agronomo, e Mario Basco, appassionato conoscitore del mondo del vino. Il sogno va realizzandosi: si sta riportando in vita l’azienda che da generazioni è appartenuta alla famiglia di Diana. Passo dopo passo, Diana e Mario hanno ridato insieme nuova vita all’azienda dedicandosi prima al recupero delle coltivazioni per poi passare alla riqualificazione e al restauro dei ruderi che oggi ospitano le otto camere e il ristorante. Oltre ai vigneti, vi è anche una meticolosa e sostenibile coltivazione di noccioleti e uliveti.

La cantina.
Cinque vitigni autoctoni: Aglianico, Falanghina, Fiano, Pallagrello nero, Piedirosso, coltivati e vinificati in modo tale da esaltare il legame tra vitigno e ambiente; e difatti, tutta l’azienda è condotta seguendo i principi dell’agricoltura biodinamica.


Il wine resort.
Il wine resort è una moderna reinterpretazione degli spazi della storica masseria, di cui si conservano ancora alcuni elementi architettonici, come le mura in tufo grigio di Teano e le travi di castagno di cui alcune originali dell’epoca.
Le otto camere sono dislocate sui tre piani della struttura che un tempo ospitava il granaio e i depositi agricoli. Tutte le stanze godono di una meravigliosa vista sui vigneti, i noccioleti, gli ulivi, i boschi e sul giardino col biolago balneabile.

Il ristorante Humus.
Sala molto ampia e luminosa, tavoli ben distanziati tra loro, mise en place piacevolmente elegante. Opportuni i dehors per pranzi e cene durante le lunghe estati che si vivono a queste latitudini.
Gli ingredienti fondamentali sono i prodotti del territorio proposti in una chiave contemporanea dal valente e giovane (27 anni) chef Dario Panico.
Racconto di un pranzo in stagione autunnale, avendo a commensale il prode direttore Giovanni Diodato, grazie al quale si è avuto modo di degustare consapevolmente alcuni pregevoli vini provenienti dalla cantina – il suddetto km zero.
Non poteva esserci inizio migliore: in appropriato calice, corretta la temperatura di servizio, Viento ‘e Mare metodo classico brut nature, blend di Fiano (80%) e Falanghina (20%). Affinamento sui lieviti per nove mesi in vasche di acciaio. Remuage su pupitres di legno, indi sboccatura. Produzione di nicchia: appena 3.000 bottiglie.
Si comincia con il graditissimo benvenuto dalla cucina: uovo poché con porcini su letto di spuma di topinambur grigliato. La gran parte degli ingredienti sapientemente lavorati in cucina sono prodotti in azienda – filiera cortissima – secondo principi etici e sostenibili. Le uova, per esempio, provengono dal vicino pollaio dove, a vista, le galline ovaiole razzolano liberamente.


Qui, in abbinamento, lo Zagreo 2022, da sole uve Fiano, vinificato e affinato in anfora con lunghe macerazioni. Questo vino ha meritatamente conseguito i Tre Bicchieri 2025 del Gambero Rosso e davvero si rivela uno degli orange più affascinanti d’Italia.
I suggerimenti sincroni del direttore e dello chef vanno ovviamente ascoltati e allora ecco in tavola, professionale e garbato il personale di sala, bottoni alla nerano: carpaccio di zucchine, germogli di basilico e spuma di caciocavallo.
Abbinamento suadente, proprio quello giusto che meglio non si potrebbe, con il Pellerosa 2019, vino rosato da sole uve Aglianico 100%, vinificato ed affinato in anfora. È vino che affascina, davvero.


Lo chef decide che un solo primo non è bastevole e tutto sommato potremmo anche non essere in disaccordo, soprattutto quando, compiuto a tavola, ci viene servito riso acquerello: datterini gialli e rossi, ricotta di bufala e salsa di soia. Nel calice permane il Pellerosa.
Siamo al secondo. Filetto di vitello: zabaione salato, patate e tartufo estivo. Qui, nel calice, il Mille 2022, ottenuto da uvaggio di Piedirosso 70%, Pallagrello Nero 20%, Aglianico 10%, vinificato e affinato in vasche di cemento.
In lista anche ottime etichette non solo campane e, anzi, non solo italiane. Ne fruiamo per deliziarci in contrappunto con lo squisito dessert: semifreddo di Melannurca campana IGP con arachidi e cioccolato gustato con un sorso di una chicca marchigiana: l’anisetta Meletti.
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