Il turismo enogastronomico, i trend del futuro, la valorizzazione contemporanea dei prodotti del territorio senza pregiudizi e in chiave positiva. Perché la promozione passa prima di tutto dalla cultura e dalla consapevolezza. Ce ne parla Michele Antonio Fino, tra gli autori di “Gastronazionalismo”.

C’è un aspetto non secondario nel panorama europeo contemporaneo che va frantumandosi: il cibo. Da quasi trent’anni l’Unione Europea adotta una politica unica al mondo per proteggere le proprie specialità, ma i motivi sono decisamente cambiati nel tempo. All’inizio si trattava di una misura necessaria a evitare la frammentazione del quadro continentale, a prevenire la corsa di ogni Paese a stabilire le proprie regole. Poi il cibo è diventato un tassello fondamentale della nuova identità nazionale: quella che non è fatta per comporsi in un mosaico di diversità ma per contrapporsi ad altri identikit, veri o inventati, con il solo scopo di affermare la propria petite patrie. Questo libro propone una rilettura critica dell’Europa contemporanea alla luce delle problematiche legate all’integrazione e al dilagare di fenomeni populisti e nazionalisti. Il libro “Gastronazionalismo” [A.C. Cecconi, M.A.Fino, A. Bezzecchi] analizza i limiti che ostacolano la costruzione di un’identità europea comune, suggerendo un approccio differente al concetto di origine per un decisivo cambio di paradigma. Ne parliamo con uno degli autori: Michele Antonio Fino, professore associato all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo.

we: “Gastronazionalismo”, un neologismo carico di significati. Da quali esigenze nasce la realizzazione di questo libro?

Il libro nasce dall’acquisita consapevolezza che un lessico nazionalista e a tratti anche violento intorno al cibo dipende dalla sottovalutazione di un complesso fenomeno sociale: nel tempo delle identità liquide, una presunta identità gastronomica nazionale diventa un’occasione di appartenenza, opposizione agli altri, rivendicazione di superiorità. Un esempio? Anche alle persone cui repelle l’idea che i tedeschi siano orribili, non ripugna affatto catalogare la cucina tedesca (o anche ogni altra cucina europea) come orribile o comunque inferiore a quella italica.

we: Cibo e aggettivi possessivi: come è cambiata la loro correlazione nel tempo?

Un tempo parlare del nostro cibo equivaleva a presentare la propria storia familiare: un elemento culturale da condividere, non un pedigree da ostentare in modo esclusivo (a meno che non si discendesse dai Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare). Oggi, nostro cibo si dice per lo più in opposizione alle tradizioni altrui, specie se l’altrui è ormai stabilmente residente in mezzo a quelli che reputiamo come i “noi”.

Fino, Cecconi e Bezzecchi, autori del libro “Gastronazionalismo”

we: Cibo e identità nazionale: dove finisce la valorizzazione delle eccellenze territoriali e dove inizia il tentativo di affermazione nazionalista?

È tutta una questione di obiettivi sociali che si traducono in un lessico. La valorizzazione fine a se stessa, volta ad affermare una realtà come unica e (intrinsecamente o estrinsecamente) superiore alle altre, porta ineluttabilmente verso atteggiamenti nazionalistici. La loro derubricazione a folclore o comunque bagatelle, permette che anche nelle teste meglio attrezzate si affermi la convinzione, via via meno discutibile, che davvero esista il Paese del buon cibo, quello che meritatamente ha più DOP e IGP di tutti gli altri in Europa, l’unico dove “da sempre” le cose di fanno “nel modo giusto” e quel “modo giusto” è invariabile e immutabile.

we: Siamo dunque di fronte a una revisione dello strutturalismo lévi-straussiano?

Da parte nostra c’è una forte ripresa delle idee di Lévi-Strauss, nella misura in cui egli riteneva che la percezione di aprirsi agli altri gruppi fosse alla base del matrimonio esogamico e del divieto di incesto, che gli apparivano universali. Inoltre, nel monumentale “Razza e storia” del 1952 , il filosofo e antropologo francese ben chiariva come solo l’atteggiamento di apertura e dialogo fra le diversità culturali (che sono sempre esistite e sempre esisteranno tra i gruppi di umani) sia l’unico foriero di progresso per l’umanità.

we: In che misura la diffusione del concetto di “gastronazionalismo” può considerarsi pericolosa?

Perché contrasta in radice lo scambio tra culture gastronomiche basato sul dialogo, l’accettazione degli altrui costumi (che vengono derubricati a degenerazioni o anche, più radicalmente, schifezze), l’apertura al meticciamento che solo porta la cultura gastronomica a procedere incessantemente. Pensate a qualsiasi piatto simbolo della cucina italiana e non avrà mai una radice integralmente italiana e assai raramente una radice esclusivamente europea (a meno che non si tratti di piselli al vapore).

Michele Antonio Fino, professore associato all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo

we: Estremizzare l’identità nazionale attraverso il cibo può influenzare il valore percepito dal turista?

A nostro avviso sì e in maniera pericolosa perché subdola. Sulle prime, infatti, il turista può trovarsi anche divertito di fronte alle vanterie nazionalistiche dell’oste o alle prese in giro verso chi mette la panna nella Sacra Carbonara o fa il soffritto di cipolle per l’Amatriciana (maiuscole non casuali). Ma non tarderà ad arrivare il momento in cui il turista, dietro la patina di un sorriso di circostanza, scorgerà il disprezzo per le sue tradizioni alimentari e questo provocherà danni sul lungo termine semplicemente incalcolabili. Perché nulla è peggio che sentirsi trattati come esseri disprezzati, allorquando si visitano luoghi nuovi.

we: Cosa possono fare gli operatori turistici per valorizzare in modo corretto le eccellenze gastronomiche delle proprie destinazioni?

Gli operatori turistici che guardano al medio lungo periodo e quindi puntano alla reputazione della loro accoglienza, non possono avere dubbi. Valorizzare l’autenticità delle produzioni proprie del territorio in cui insistono è un must, ma sempre in chiave positiva e dialogica, ovvero sempre parlando di ciò che si fa e mai di ciò che fanno gli altri (nemmeno indirettamente) e sempre ponendo le proprie specifiche in un dialogo rispettoso con il cliente. Per capirci, se quest’ultimo dice che dalle sue parti c’è un formaggio che gli ricorda quello che sta assaggiando in quel momento, una risatina o una domanda del tipo “davvero fate formaggio dalle vostre parti?” non è l’atteggiamento giusto.

we: La tecnologia e i mezzi di comunicazione digitale possono avere un ruolo nella diffusione di valori positivi legati al cibo?

Certamente i mezzi digitali offrono l’unica speranza di riuscire a sfuggire alla dittatura del mainstream giornalistico dei media tradizionali che per ragioni varie (i.e. inserzioni) sono molto appiattiti su una retorica nazionalistica e pronti a rilanciare comunicati stampa di consorzi e aziende con poca o nulla capacità di critica e di analisi.

we: Uno sguardo sul futuro e i trend del turismo enogastronomico

Il futuro dell’enogastronomia italiana è roseo: una varietà frutto della nostra plurisecolare divisione in vari staterelli ad autonomia variabile ci regala un vantaggio di diversità semplicemente incolmabile. Se ce ne facciamo promotori senza la pretesa di esserne profeti con la smania di mandare al rogo gli eretici, avremo racconto e sostanza per i prossimi cento anni.

[Immagine di copertina: ph Pietro Stara].