L’olio extravergine di oliva è di tendenza. Prodotto prezioso, meraviglioso, universale, merita molto di più di una fetta di pane a inizio pasto. Da qui, il dilemma: carta degli oli sì o no? Perché saper scegliere, presentare, servire l’olio può fare la differenza, non solo nel menu, ma anche nell’experience del cliente. E di chi lo ospita.

La carta dei piatti. La carta dei vini. La carta delle acque minerali. La carta dei caffè. La carta dei cuscini. La carta degli oli. Nel mondo dell’ospitalità si parla di una pluralità di “carte di”, più o meno create sull’idea della carta dei vini. Che però non può essere un modello per tutto.

L’olio come il vino. Ma non è il vino.

Olio extravergine di oliva (ormai, di solito, “olio EVO”) e vino sono due eccellenze foodcultural: da vedere come varietà infinita di prodotti, dono ospitale perfetto, esperienza gustativa unica, storie di territori da narrare.

L’analogia finisce qui. Se infatti il vino invecchiando si impreziosisce e si tiene da parte, l’olio no, non può invecchiare. Perché ha vita breve e, soprattutto quando parliamo di utilizzo a crudo, dona il meglio delle sue proprietà per 18 mesi. L’etichetta sulla bottiglia d’olio parla chiaro.

E se durante un pasto si possono ordinare una o più bottiglie di vino, con l’olio no, non accade. Perché per quanto un assaggio d’olio o un finissage del piatto, davanti al cliente al tavolo, sia generoso difficilmente svuota la bottiglia. Anche se piccola.

La carta degli oli. Un esercizio fattibile ma…

Se curare una carta dei vini intelligente e ricca di articolazioni varietali, verticali, territoriali, funzionali è interessante, fare lo stesso per una carta degli oli no, non è possibile. O meglio, si può, ma è utile? Perché immobilizzare troppe referenze di olio evo in una cantina e quindi in un menu è un rischio. In termini di costi, di qualità dell’offerta e di consumo realistico.

E comunque perché proporre e servire l’olio ai clienti, facendo loro apprezzare varietà e differenze, richiede preparazione. E almeno un minimo di adeguata formazione.

Per la voce “Olio”, diverse opzioni.

Ci sono diverse strade percorribili. E tutte queste opzioni accendono una luce sul valore dell’olio EVO nell’offerta ristorativa. Per far sì che chi assaggia un olio capisca che cosa sta sentendo e lo gusti al meglio.

Ecco allora alcune ispirazioni concrete – motivi per avere, non avere o cambiare la carta degli oli.

Una Carta degli Oli piccola, come oggetto a parte, con una selezione ristretta, da cambiare periodicamente, 3-4 oli molto differenti tra loro, con profili ben descritti nei tre aspetti-cardine dell’olio EVO: fruttato, amaro, piccante. Lo sta facendo molto bene il nuovo ristorante Vibe a Milano, aperto dal vincitore di Masterchef 2017, Valerio Braschi (con l’expertise del fratello Lorenzo, assaggiatore di oli).

Una premessa filosofica all’intero menu, spiegando nella prima pagina l’idea di una scelta particolare di oli dalle qualità eccezionali. Questo l’approccio della Trattoria del Pesce di Bargino (FI), condotta da Filippo Falugiani, presidente dell’AIRO (Associazione Internazionale Ristoranti dell’Olio).

La valorizzazione dell’olio all’interno della carta, sia essa stagionale o d’occasione. Questa opzione è una sfida sul doppio binario delle parole per dirlo e dei contenuti per farlo.

Perché, scelti gli oli, è questione non di costi ma di parole che creano attenzione e valore. In meno di una riga [e proprio su questo tema ho attivato un workshop].

L’olio come esperienza a sé.

Ancora due ispirazioni. Una, trasformare l’assaggio di 2-3 oli nella prima voce del menu. Con relativo prezzo. Due, considerare il pairing ai piatti o il finissage con oli selezionati un’opzione supplementare in un percorso gastronomico. Con un prezzo a sé. Esattamente come si fa per i calici dei vini in abbinamento durante un percorso-degustazione. Per non perdere il filo (d’olio).

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