Perché l’aggettivo “turistico” in Italia ha un’accezione negativa?
Ripartiamo dalle parole. Come si è arrivati – in un Paese a fortissima vocazione turistica – a caricare l’aggettivo “turistico” di accezioni negative? E cosa c’entra con la percezione che i viaggiatori hanno della nostra proposta ospitale? E se fosse questa la chiave della ripartenza?
Dovrebbe descrivere le qualità dell’offerta di una destinazione. È diventato sinonimo di cheap. A buon mercato, senza attenzione alla qualità, affollato, mainstream. Quando non il locale in cui tendono a fregare i turisti. Ogni volta che chiediamo consiglio a qualcuno su un posto da visitare, chiediamo sempre di suggerirci le location poco turistiche. Insomma, quando un luogo – che sia una destinazione, un punto di attrazione, un hotel o un ristorante – viene definito turistico, il pensiero va immediatamente al Gruppo Vacanze Piemonte o alla Gita sul Po.
Che le parole siano importanti, lo abbiamo già detto più volte. E se fosse così anche per il turismo? A forza di parlarne con accezione negativa, abbiamo finito per trasformare le nostre risorse in armi a doppio taglio. Ovviamente non è soltanto una questione di parole. Il fatto è che, dal dopoguerra in poi, ci siamo impegnati in tante di quelle azioni significanti da affossare piano piano la qualità percepita della nostra offerta turistica. Qualche esempio?
I centri storici invasi da chioschi, gelati al poliuretano espanso e pizze di plastica
In paese che vanta un’enogastronomia di pregio e variegata come la nostra, per mangiar bene occorre fare una ricerca certosina tra guide e consigli di amici gourmand. Sì, perché – paradossalmente – i maggiori centri di attrazione sono infestati da tavole calde, ristorantini a base di fritto misto e menu – appunto – turistico. Obiettivo? Pochi, maledetti e subito. E poi stiamo a versare fiumi d’inchiostro su come ovviare al turismo mordi e fuggi. Dove chi morde deve essere anche di bocca parecchio buona.
I bookshop dei musei trasformati in coacervi di chincaglierie
Raffaello diventa un magnete. Caravaggio una maglietta. Tintoretto una matita. Borromini una pochette. Il tutto per andare incontro a un pubblico di poche pretese che assalta i musei armato d’ignoranza con l’unico obiettivo di farsi un selfie corredato dall’hashtag #solocosebelle. E poi per convincere i giovani ad andare ad ammirare la Primavera del Botticelli [il Botticelli, eh, mica Alberto Burri] dobbiamo ricorrere a una blogger di moda.
San Marco è senz’altro anche il nome di una pizzeria…
San Marco. Tritone. Dante. Fellini. Michelangelo. I nomi dei più grandi artisti e delle loro opere riciclati in insegne al neon di locali quasi mai all’altezza del proprio altisonante naming. Possibile che non esistano standard qualitativi per le strutture situate a ridosso delle opere d’arte o dei centri di maggior rilievo artistico e culturale? E così nelle migliori piazze d’Italia ci troviamo ammorbati da invadenti buttadentro, alberghi con un rapporto qualità prezzo da far tremare le falangi e ristoranti o inavvicinabili o nemmeno degni di questo nome.
La fidelizzazione non serve
Perché i camerieri e gli addetti al ricevimento di ristoranti e hotel dei centri più importanti e delle destinazioni a maggior affluenza turistica sono spesso sbrigativi e poco attenti alla fidelizzazione del cliente? Perché credono di non averne bisogno. Non nascondiamoci dietro un dito, è così. Sanno di avere un turnover di clientela che consentirà loro di avere sempre la massima occupazione: chi glielo fa fare di impegnarsi per migliorare l’esperienza dell’ospite?
Migliorarsi non serve
E a proposito di occupazione, sapete cosa rispondono alle proposte di innovazione gli albergatori e i ristoratori delle città che fino all’anno scorso vivevano quel fenomeno chiamato overtourism? Noi non ne abbiamo bisogno, tanto siamo sempre pieni. Come se avere l’hotel e il ristorante pieno significasse vendere bene, ottimizzare il lavoro, raggiungere target specifici, offrire esperienze di soggiorno positive.
Questi sono soltanto alcuni degli innumerevoli esempi che potrei portare sul concetto di turistico.
È così che siamo arrivati alla ricerca – sacrosanta, ma in certi casi spasmodica e forzata – di turismo esperienziale.
È così che abbiamo tirato la volata all’extra-alberghiero, salvo poi lagnarcene alla bisogna.
È [anche] così che abbiamo nutrito le OTA di cui adesso siamo schiavi.
È così che abbiamo abbassato costantemente il livello dei turisti e, allo stesso tempo, delle destinazioni.
E a proposito di turismo esperienziale, voglio lanciare una provocazione. Visitare i Musei Vaticani, gli Uffizi o la Basilica di San Vitale non è forse di per sé un’esperienza? Vi siete mai domandati perché chi cerca il lusso – o, in generale, il turista culturalmente più evoluto – cerca destinazioni esclusive e preferisce andare a mungere il latte in una malga piuttosto che addentrarsi in una qualunque, sovraffollata piazza o spiaggia d’Italia?
Ripeto, si tratta di una provocazione. Il turismo esperienziale ha tutto un suo valore che certamente non si riduce a questo. Ma non sarà che abbiamo finito per complicarci la vita da soli abbassando sempre di più l’asticella della qualità percepita dal turista in nome di un’alta occupazione, peraltro non sempre conveniente?
Come si suol dire, chiedo per un amico.
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