Tempo di lettura: 5 minuti.

Casa Perbellini 12 Apostoli decide di chiudere dal sabato al lunedì. “Per ricaricare le pile”, come dice chef Perbellini. Un caso virtuoso di work life balance, per se stesso e per i collaboratori. Destinato a rimanere isolato?

Che bella notizia! E quanto ancora più bello sarebbe lo scenario della ristorazione se, ci sia perdonato il paradosso, questa notizia… non costituisse notizia! Sveliamo di cosa si tratta. Dunque, a partire dal mese di maggio, il ristorante tristellato Casa Perbellini 12 Apostoli a Verona è chiuso dal sabato sera a tutto il lunedì, per riaprire il martedì.

E il patron di Casa Perbellini 12 Apostoli è Giancarlo Perbellini. Stiamo parlando di uno chef famoso, in confidenza con le stelle Michelin e a suo agio con l’erogazione del fine dining quello vero, quello che i fronzoli, se li ha, sa tenerli a bada nel loro ruolo ancillare, e sa esaltare il lavoro di cucina e il lavoro di sala.

Imprenditore vero, gagliardo, abile a condurre brigate di alto livello e sempre attento non a soddisfare il cliente, che è cosa facile, bensì a deliziarlo, cosa ben più ardua. Giancarlo Perbellini ha avuto il coraggio della coerenza. La sua analisi, agevolmente condivisibile da chi vuole vedere, e di ben difficoltosa comprensione per quanti non sanno e/o non vogliono vedere, parte da alcuni semplici presupposti.

Primo presupposto: lo splendido solista non va da nessuna parte.

Si fa presto a dire che Cesare conquistò la Gallia; sì, ma con le sue legioni! Il talento ci vuole, altroché se ci vuole, e lo chef Perbellini è indubbiamente talentuoso, e però ci vuole la compagine (le brigate, appunto) che sappia cantare in coro. Ciò acclarato, queste brigate (la cucina, la sala) lavorano bene se e solo se sono poste nelle condizioni di condividere una vision. Abilità del “capo” – e la parola chef in origine sta appunto a indicare il “capo” – è trasmettere, rendere nota e condivisa la vision e, va aggiunto, aggiornarla anche grazie a contributi di pensiero provenienti dalla squadra.

Quindi, eccoci al secondo presupposto, le persone vanno motivate.

E come si motivano le persone? Attenti perché stiamo osservando da vicino, e staremo bene attenti a non caderci, il più pernicioso dei baratri intesi come errori marchiani. Sì, moltissimi patron sarebbero pronti ad affermare che tutto sommato motivare i collaboratori sarebbe facile, solo che essi, poverini non possono, non se lo possono permettere (!); in definitiva si tratterebbe di elargire a costoro retribuzioni un po’ più elevate di quelle vigenti.

Eccolo, l’errore grave. Attenzione. Responsabilmente ci sentiamo di affermare che i soldi, da soli, non motivano! I soldi, qualora percepiti come compenso inadeguato a fronte della prestazione erogata, sono il motore primo della demotivazione, del lavoro eseguito sciattamente, della volontà di scapparsene il prima possibile da ambiente giudicato malsano.

Repetita iuvant: i soldi NON motivano, e però se percepiti come “pochi” essi fortemente demotivano. Quindi, il secondo presupposto si scinde in: a) non ci servono, sono nocive all’intrapresa, le persone demotivate; b) ci servono fortemente (e urgentemente) le persone motivate. L’affermazione a) da sola non basta; l’affermazione b) intanto può esistere se esiste a). E come si motivano, atteso che siamo già nella condizione di non tenerle demotivate, le persone?

E qui riportiamo pressoché testualmente le parole dello chef Perbellini che argomenta la sua coraggiosa scelta, effettuata… “per andare incontro alle esigenze di vita del personale di sala e cucina che in questo modo può vivere in maniera più rilassata il proprio tempo libero. Una pausa in giorni che per un ristorante possono essere strategici [fine settimana e lunedì] e che quindi assume un valore ancora più significativo”.

Lo chef’s table di Casa Perbellini 12 Apostoli.

Cosa coglie lo chef Perbellini che tanti suoi colleghi ancora non hanno colto?

Il mutamento radicale del paradigma fondante le relazioni di lavoro: c’è un datore di lavoro che assume e c’è un lavoratore che, grato per l’assunzione, lavora. A fronte di scarso rendimento e/o di mutamenti di scenario, il datore di lavoro licenzia il lavoratore. Ecco il mutamento di scenario: sempre più spesso accade che sia il lavoratore a licenziare l’azienda. Le dimissioni volontarie come atto “naturale” nel percorso lavorativo della persona. Difatti, citiamo ancora, pressoché testualmente, lo chef Perbellini: “Nel mondo lavorativo attuale, e in maniera specifica in quello della ristorazione, il turn over è molto alto e trattenere i talenti diventa decisivo”. “I talenti”.

Il ristoratore (e siamo al terzo presupposto) ha l’abilità e la volontà di ricercare, assumere e “trattenere” i talenti? Atteso che su nessun cv sta scritto… “il sottoscritto è un talento”, come si scova un talento?! Nessuna ricetta, ahinoi, ma solo un sommesso suggerimento. Il ristoratore non si ponga alla ricerca di dipendenti. Dipendente = che dipende!
E con i problemi che ci sono: burocrazia, fornitori, banche, tasse, e chi più ne ha… ci manca solo che mi affardello di un altro problema: avere persone che “dipendono” da me! Portatori di grattacapi, portatori di problemi, no che non ne voglio (dovrebbe dire il ristoratore), ne ho già abbastanza, grazie. Io necessito di “indipendenti”, io necessito di portatori di soluzioni, meglio ancora se originali e innovative, non di portatori di problemi. La manodopera mi è necessaria ma non sufficiente. Costoro, se sono solo manodopera, saranno sempre e solo dipendenti, e non mi sta bene!

Io ho bisogno di “mentedopera”; ho bisogno di chi interpreti il suo ruolo in squadra non come grigio assolvimento quotidiano di un mansionario, bensì come fattivo contributo di pensiero (la mente, ma anche il cuore) a che il lavoro sia appagante, atteso che, situazione by default, il compenso sia ritenuto equo, decoroso, soddisfacente.

Sul terreno retributivo ci sarebbe ancora molto da dire e da fare.

Qui solo tre cenni: ha mai il ristoratore pensato a una componente variabile, sorta di corresponsione provvigionale in funzione degli incassi misurati su ragionevoli lassi temporali (la settimana, il mese)?!?
Ha mai il ristoratore pensato a componente variabile frutto di schema incentivante basato su conseguimenti di obiettivi specifici resi noti e chiari al momento del lancio? E se talvolta il “premio” fosse non in moneta ma in benefit?! Qui si apre vasta prateria.

Citiamo ancora pressoché testualmente Giancarlo Perbellini: “Il tempo ben speso restituisce sempre qualcosa ed è per questo che ho ritenuto di dare valore al tempo sia per me sia per i ragazzi che lavorano ogni giorno al mio fianco. La chiusura dal sabato sera a tutto il lunedì è fondamentale per ricaricare le pile e consente di affrontare il nostro lavoro nel modo migliore. Le persone sono sempre al centro di qualsiasi progetto lavorativo e così anche nel nostro. Come imprenditore ritengo doveroso attuare misure di welfare come questa per mettere tutti nelle migliori condizioni possibili, valorizzando e premiando il talento e le professionalità. Un investimento che ha indubbiamente un valore economico, ma ancora di più, umano, e sono certo che creerà un grande beneficio di ritorno”. Si parva licet, saremmo tentati dal citare il poeta e filosofo indiano Rabindranath Tagore: “All that is not given is lost”.

Resterà isolato il caso veronese?

Sapranno/vorranno altri ristoratori imparare dall’avveduto coraggio dello chef Giancarlo Perbellini? Quanti, invece, continueranno a ritenere il “personale” un costo e come tale, con coerenza micidiale, comprimere più che si può? Per costoro, il “personale”, sia detto per chiarezza, è quell’oggetto magmatico che… non si trova e che, se si trova, non ha voglia di lavorare e non sa fare niente e pretende soltanto!

°°°

In apertura, Giancarlo Perbellini con Patricia Urquiola, progettista di Casa Perbellini 12 Apostoli a Verona.