Hotel Europa, Eden e Belvedere, Cristallo e l’intramontabile Mare e Monti. Una certezza tra i nomi degli alberghi italiani. Anche l’hotel Centrale non manca mai. Sarà giunto il momento di cambiare? E dare importanza al naming anche per gli hotel? Scopri se e quando nell’intervista a Chiara Gandolfi, founder di BalenalaB.

Se nell’antichità si credeva che nel nome fosse addirittura scritto il destino delle persone, ancora oggi dare un nome alla realtà significa identificare, quasi creare, ciò che abbiamo davanti. Nominare è un atto qualificante dell’esperienza umana. Non a caso, ai nostri meccanismi mentali basta anche solo la denominazione di un soggetto/oggetto per evocarlo.
Lo sa bene Chiara Gandolfi, owner di BalenalaB, verbal designer che si occupa da anni di progettare brand identity tenendo conto dell’importanza del processo di naming per identificare la proposta di valore di un marchio. Ne abbiamo discusso con lei, dopo averla ascoltata come speaker a Hospitality Day a Rimini lo scorso ottobre.

Chiara Gandolfi di BalenalaB.

we. Chiara, tu che aiuti gli altri a scegliere i nomi, ne hai scelto uno per la tua attività molto insolito, perché?
Il nome è il gancio a cui appendi la tua storia, uno spunto per approfondire. Non devi raccontare l’intera storia attraverso il nome, ma devi trasmettere un’atmosfera. Io ho scelto per la mia attività BalenalaB – un nome evocativo – proprio perché regala una suggestione. L’immagine della balena richiama le profondità nelle quali si inabissa: infatti rimanere in superficie non è un’opzione praticabile per me. Inoltre, la voce della balena incanta, ci racconta un mondo di riflessione, di imperfezione e di differenza. Nella perfezione c’è staticità, nell’imperfezione fluidità e dinamismo. Io volevo che tutta questa fluidità del mare, tutto questo mondo che colleghiamo alla balena, fosse trasferito al brand.

I nomi evocativi, come questo, sono molto più contenitivi e mi pareva perfetto per raccontare la mia attività, molto diversificata, che parte dal naming e dalla brand identity e arriva fino alla voce, intesa non solo come tono di voce nei testi, ma anche in senso stretto. Uso la mia voce, infatti, per moltissimi voice over professionali. Nella mia esperienza, ormai decennale, il nome BalenalaB è stato un modo di differenziarmi, semplificare e avvicinare.

we. Differenziarsi, semplificare, avvicinare, evocare: sono quindi queste le caratteristiche che deve avere un bel nome?
Non ci sono nomi belli o brutti, ci sono nomi funzionali che differenziano dai competitor, questo è l’aspetto veramente fondamentale da tenere presente nel fare naming. Ho notato spesso, soprattutto nel settore dell’ospitalità, scarsa differenziazione e omonimie frequenti. Ma un’omonimia, un nome cioè “comune a molti”, è un nome che non racconta nulla, non ci differenzia e non ci rende memorabili. Tutti scegliamo ciò che ci colpisce e veniamo scelti per ciò che di particolare abbiamo, non perché siamo la copia di qualcos’altro di già visto. Naturalmente un buon processo di naming non può prescindere dai criteri di marketing e di brand identity, deve identificare, quindi, la proposta di valore, il mood, l’identità del marchio.

Un’altra caratteristica fondamentale che deve avere un nome è che sia durevole e che faciliti la comunicazione, deve insomma “tornarti all’orecchio”, così facendo si ritaglia uno spazio, diventa un amico e favorisce il passaparola.

we. Qual è l’errore maggiore che si può fare nella scelta di un nome?
Sicuramente non pensare in maniera strategica. Dobbiamo ricordarci che il nome ha la funzione di far partire l’esperienza del cliente perché crea aspettative, anticipa le sensazioni, favorisce la riconoscibilità, connette il pubblico all’idea che c’è dietro, concorre alla valorizzazione di un brand. Quando il nome non dialoga con gli altri elementi del brand, con le foto, con la palette dei colori del sito, con il tone of voice dei post sui social, si ottiene un effetto dissonante, destabilizzante. Perché il nome si posizioni nella mente delle persone, raccontando coerenza, è necessario un vero e proprio ecosistema di brand.

we. Come bisogna quindi procedere per un buon processo di naming?
È opportuna una fase di analisi e ricerca per conoscere la realtà di business, l’eventuale relazione con altri nomi che la struttura ha o ha avuto, e i nomi usati dalla concorrenza. Successivamente bisogna scegliere a quale categoria di nome vogliamo ricorrere per trasmettere le sensazioni che ci proponiamo di evocare; un nome può essere descrittivo, suggestivo, richiamare il nome del fondatore, ricorrere a un acronimo o un neologismo, se necessario.

Per fare tutto ciò è necessario lavorare in strettissima relazione con il cliente e con la sua squadra, per aiutarlo ad acquisire consapevolezza dell’identità della propria marca. Una volta definito l’ambito, lavoriamo sul significato delle parole, sulla loro forma, sulle sonorità, lasciandoci andare alla creatività spontanea. Tutto quanto emerge da questa fase viene poi selezionato attraverso criteri di naming linguistico – per esempio quanto il nome scelto sia esportabile, quanto pronunciabile anche da clientela straniera, se questo è il target – eliminando quei nomi che trascinano con sé significati negativi in uno o più contesti. La risultante viene esaminata alla luce della coerenza con il posizionamento del cliente, con il settore e con il target. Alla fine del processo viene poi la verifica fondamentale di cui abbiamo già parlato: se il nome è effettivamente nuovo, distintivo, non in uso nella categoria merceologica, è opportuno registrarlo per salvaguardarne la proprietà intellettuale. Registrare il nome non è un vezzo, aiuta a proteggere il marchio dalle contraffazioni e favorisce anche per la ricerca sul web. E lo si mette all’attivo del bilancio, quindi porta risultati strategici oltre che linguistici e di marketing. Ricordiamoci sempre che il nome è il nostro biglietto da visita: se non ci differenzia, stiamo perdendo un’occasione.

we. Cosa fare se ci rendiamo conto che il nome funziona poco, ma non vogliamo, o non possiamo cambiarlo?
Un rebranding non è cosa facile. Bisogna valutare quanto il marchio abbia già una notorietà, quanto il cambiamento possa impattare sui clienti vecchi e nuovi. Se invece decidiamo di cambiare target di riferimento, allora anche un cambio di nome può essere opportuno. Il nome è una scelta strategica, non bisogna farsi prendere da sentimentalismi. Ricordiamoci che i nomi legati alla nostra storia personale hanno valore solo per noi. A meno che questo nome, cui siamo sentimentalmente legati, non diventi testimonial di tutto lo storytelling.

Se non vuoi o puoi fare un cambiamento sostanziale, puoi lavorare in continuità, mettendo insieme tanti piccoli passi verso la novità. Si può, per esempio, lavorare sui complementi, il pay off può diventare il messaggero delle novità che vogliamo comunicare. Ci si può concentrare su una nuova identità visiva, raccontare con le immagini ciò che il nome non dice. L’importante è che il nostro messaggio conduca sempre verso una prospettiva futura. In ogni caso, che si decida per un cambiamento sostanziale o per qualche piccolo passo verso il futuro, tutto va comunicato e giustificato. Qualunque cambiamento viene fatto per il cliente e la relazione con lui va sempre coltivata e raccontata.