
Ode alla birra.
Birra VS vino? Ma no! Solo felicità conviviale a prezzi ragionevoli per bevute in “jeans e maglietta”.
La loro nascita data millenni fa. Cinque, sette, nove?! Ce la caviamo con un saggio ‘giù di lì’. Stiamo parlando di due maestà del beverage: la birra e il vino. Non è storia. No, è preistoria. E qualcosa vorrà pur dire se due bevande così ben presenti tra noi, così pervasive sulle nostre tavole, ebbero le loro origini nella preistoria. Che giorni erano, quei giorni di qualche millennio fa? La grama sussistenza, la vita dura, la fatica, il sopravvivere lottando contro le fiere e le avversità naturali, e, giusto per prendere l’abitudine, anche gli uni contro gli altri. Non morire di freddo, copriamoci; non morire ammazzati, difendiamoci; non morire di fame, procuriamoci da mangiare (i primi segnali di un’agricoltura tutta da venire); non morire di sete, dissetiamoci.

Dalla sopravvivenza al vivere. L’acqua ci disseta. L’acqua con qualcosa d’altro, frutto di fermentazioni dei doni della natura, ci disseta di meno, non è detto che ci faccia bene e però di certo ci fa stare bene.
Malto, luppolo: la birra.
Uva: il vino.
Si tratta di fare un salto di alcuni millenni e arrivare ai nostri giorni. Diciamo alla seconda metà degli anni Ottanta dello scorso secolo. Balzo epocale: dal singolare al plurale.
Dalla birra alle birre e dal vino ai vini. Non più commodity, bensì etichette che palesano spiccate identità. Identità frutto di lavorazione, nel caso delle birre, e di territorio delle vigne e origine dei vitigni nel caso dei vini. Vi è sapiente arguzia di marketing nel posizionamento della birra. Esso è certamente distintivo e quindi non teme affollamento con altro beverage, men che meno vino e mixology. A risultato di ciò, vantaggio ulteriore, notiamo anche l’assenza di qualsiasi turbolenza competitiva: birra e vino non sono competitor, al più sono bevande attigue.


Il vino (i vini, pardon) da saper conoscere e riconoscere e da individuare quello giusto (il pairing) a fronte di cosa c’è nel piatto. Vino e birra a somiglianza di quei genitori che hanno due figli: ci tengo tanto a presentarti mio figlio, è un talento. Ma ne hai due, vero? Ah, sì, un giorno se capita ti presento anche l’altro. Ecco: il gioiello di famiglia e… quell’altro.
Con il tempo si scopre che il gioiello è diventato saccente, pieno di sé, borioso. Vuole stare al centro dell’attenzione e guai a non ricoprirlo di coccole. Il secondo, l’altro, è alla buona, va d’accordo con tutti, si concede e si scopre che si sta bene anche in sua compagnia. Il gioiello, e sennò che gioiello sarebbe, al ristorante di un certo livello vive in un suo appartamento chiamato cantina. Al cliente si palesa mediante sua carta: la carta dei vini. Mercuriale pomposo con nome e patronimico e accanto un numero, non di rado a due cifre, che poi sarebbero i soldini che servono per farlo arrivare a tavola e sussiegosamente sorseggiarlo, di riti e miti ammantandolo. A presentarlo, il gioielliere sommelier: affabulatore istrionico, e (così dicono), padrone della materia.
L’altro, che va già bene se non si presenta al cospetto del suo pubblico con “jeans e maglietta”, è a suo agio in pizzeria. Viene introdotto da apposita carta? Nei tempi recenti più sì che no. Ma nei tempi meno recenti, se la memoria non ci inganna, era più no che sì! Come si faceva a sapere il suo cognome? Insomma, cosa sto ordinando? Cosa berrò? Indizi chiari e certi: sponsor dei boccali, degli ombrelloni, dei posacenere… merchandising alla buona.

E passano i decenni e, a mo’ di fiume carsico, anche proverbi e frasi fatte, dopo oblio sotterraneo ritrovano la luce. Due di questi: “chi troppo vuole nulla stringe” e “chi si loda s’imbroda” fungono da arcigno monito verso il gioiello. Hai giocato eccessivamente in autoreferenzialità, ti sei spinto oltre il limite del ragionevole. A momenti già per impugnare il calice bisognava sostenere esame. I prezzi in carta sono sovente inverecondi. E ci fermiamo qui, per carità!
Non nei sottoscala allestiti a cantine, ma in cambusa se non, meglio ancora, nei frigoriferi (sì, ma nulla di ghiacciato), riscopriamo il non gioiello. Piacevole a bersi, non che faccia tante storie sul pairing e sì che talvolta regge alla grande pietanza sontuosa. Poi, pizza e birra è il binomio della felicità conviviale a tavola: quella tavola così saporita e alla buona, quella tavola che a starci seduti allegramente non è che il portafoglio si svuota!
Si parlava di posizionamento.
Quale errore grave commetterebbe il “non gioiello” se provasse ad approfittare della debolezza del gioiello per tentare “swap”, ovvero scambio di ruolo. Non sia mai! La saggezza millenaria che entrambe le bevande detengono è stata momentaneamente smarrita dalla bevanda gioiello. A essa, per contingency sfavorevole, si sta affiancando anche il (passeggero) male oscuro dei dazi USA.
L’altra bevanda, nel mantenere inalterato il suo understatement, senza che ciò comportasse la non autostima (tutt’altro), ha incrementato la sua reputazione e di ciò comincia adesso a giovarsi.
Non che il gioiello sia antipatico; ma proprio no, no e no! Però, vuoi mettere, quanto simpatica e gioviale è la birra!
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In apertura, ph. Pixabay.
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