
Cucina sostenibile e ristorazione: un legame possibile, anzi necessario.
La candidatura della cucina italiana a patrimonio Unesco diventa l’occasione per riflettere su sostenibilità e diversità bioculturale, anche nel mondo della ristorazione.
La label precisa della candidatura della cucina italiana a patrimonio culturale immateriale dell’Unesco è: “La cucina italiana tra sostenibilità e diversità bioculturale”. Occhio, quindi alla valenza della “sostenibilità”. Cosa comporta nella ristorazione, ristorazione d’albergo inclusa, l’adesione vera e non greenwashing alla cucina sostenibile?

Vogliamo provare a partire, inusuale l’approccio, da quanti nelle cucine ci lavorano: dallo chef ai vari cuochi di partita, agli aiuto cuochi (stagisti inclusi) fino ad arrivare alla plonge. Lavoratori che forse vanno addestrati a fare bene il loro mestiere. Lavoratori che certamente vanno formati affinché quel mestiere divenga professione: non solo fare, ma capire il perché del fare e predisporsi al cambiamento affinché ci sia tensione al miglioramento continuo. Fare e inventare il nuovo modo di fare.
Si tratta di valorizzare la formazione continua a partire dalle nuove generazioni, coinvolgendo e incoraggiando gli studenti degli istituti alberghieri, contribuendo a formare una nuova generazione di professionisti del settore verso un’educazione alimentare che promuova il territorio italiano e incentivi un futuro più sostenibile.
Ancora il lato umano, ovvero il benessere dei dipendenti e la volontà datoriale di includere tutti i collaboratori nei progetti, in maniera proattiva. Ecco, il concetto forte dell’inclusività. Inclusività significa creare un ambiente che accoglie le differenze, che offre una possibilità di lavoro a tutti, che valorizza differenze e diversità all’interno delle brigate.
Altro fattore della cucina sostenibile: la filiera corta. Diremmo diversamente: la spesa al mercato contadino. Certo non tutto ciò di cui la cucina necessita si può comprare al mercato contadino. Ma quanto di fresco transita in cucina per essere lavorato e per comporre il piatto che arriva sulla tavola del cliente, non può prescindere da una provenienza certa, di tempo breve e in sintonia con i cicli stagionali. Dove si può, favole allegre non ce le facciamo, quindi, “dove si può”: orto e aia di prossimità, per non dire “in casa”. Dall’alimentazione e dall’agricoltura, dall’interazione tra cibo, salute e ambiente passa il futuro del nostro pianeta: ci piaccia o meno.
Oramai, e lo si afferma essendo di ciò felici, per il cliente (una buona parte di essi, almeno) il perseguire prassi vera e coerente di sostenibilità conta tanto quanto la qualità di quanto arriva a tavola e l’accoglienza della sala.
Il secondo punto è, in coerenza con la candidatura Unesco, l’attenzione alla tradizione culinaria, ovvero… quando arriva il piatto a tavola vorrei capire la provenienza degli ingredienti. E qui, dobbiamo essere molto chiari. Commendevole quanto già accade in alcuni ristoranti, una o più pagine del menu dedicate a rendere noti chi sono i fornitori: nome e ubicazione dell’azienda, prodotti utilizzati. Va bene, va molto bene. Ma qui si vuole dire un’altra cosa ancora e proviamo a spiegarci bene. Quando mi arriva il piatto a tavola, quanto esso mi costi lo so perché al momento della comanda, suvvia, la sbirciatina al prezzo l’ho fatta e perché mai non avrei dovuto farla.
Ma il mio interrogativo diventa… quanto costa all’ambiente e quindi anche a me nel termine medio e nel termine lungo, questo piatto? Insomma, il costo per la collettività “quorum ego”, è “sostenibile”?

In stretta correlazione a ciò, il terzo punto: l’attenzione alla biodiversità, alla biosfera e, pragmaticamente, l’uso delle energie rinnovabili. Qui la responsabilità dello chef è forte: sta decidendo cosa mettere nel piatto ma, per dirla meglio, cosa mettere “in pentola” a ché poi esca il piatto! Sta attuando in cucina quella che è l’attenzione ai territori e all’origine delle materie prime.
La sostenibilità, va detto, non è mero afflato bucolico, verde ed ecumenico. La sostenibilità è concretezza. Dire di volersi cimentare con il proprio lavoro onde creare un mondo migliore attraverso la cucina e l’ospitalità è dichiarazione impegnativa ma non velleitaria.
Ed eccoci a una riflessione che forse risulterà sorprendente. Le grandi aziende, le cosiddette corporate, nella maggior parte dei casi, entità multinazionali, da anni lavorano al cosiddetto “sustainability commitment”, ovvero la dichiarazione di sostenibilità. Detta in breve, per capirci subito, la dichiarazione di sostenibilità evidenzia come l’azienda miri a ridurre la propria impronta ambientale, a contribuire positivamente alla società e a mantenere etiche pratiche di conduzione aziendale.

Ecco, e volete che non siano proprio le realtà dell’ospitalità e della ristorazione le più naturalmente vocate alla loro peculiare “dichiarazione di sostenibilità”? Senza soggezione, senza timore reverenziale e però, senza infingimenti e con il necessario rigore deontologico, la “dichiarazione di sostenibilità” dovrebbe diventare “con naturalezza” un atto del ristoratore e dell’albergatore. Qui, va detto, diviene manifesto che non si tratta più di avere la possibilità economica, qui si tratta di avere la base culturale per comprendere che si deve lavorare su ciò.
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In apertura, ph. Freepik.
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