
Intervista a Ezio Indiani. Una vita per l’hospitality e [da vent’anni] per il Principe.
Dagli inizi della carriera, da come una battuta gli ha cambiato la vita, dall’Eden di Roma al de Berg a Ginevra, a quanto Villa D’Este gli sia rimasta nel cuore ma poi ha scelto il Principe – Ma non ho dormito per una settimana- Da più di 20 anni generale manager al Principe di Savoia a Milano, Ezio Indiani si racconta a we:ll.
Mi accoglie nella splendida lobby del Principe di Savoia, a Milano, in quella che è la sua casa ancora prima che essere il suo luogo di lavoro, in un tavolino appartato ma dal quale non gli sfugge nulla delle mille operazioni sottili che sottendono l’arte dell’accoglienza e che i suoi collaboratori stanno svolgendo in maniera quasi impercettibile. “Quando accettai l’incarico di direttore generale del Principe, a luglio del 2005, scelsi di vivere in albergo per essere sempre presente in caso di necessità”, mi racconta.

Ma chi è Ezio Indiani – cremonese, classe 1952 – da esattamente 20 anni alla guida di quello che è un’istituzione per la città di Milano, l’Hotel Principe e Savoia, così si chiamava, aperto nel 1927 in quella che allora era una zona quasi periferica della città. Per il milanese di inizio secolo, quello che era importante a Milano, doveva accadere tra piazza Duomo e la Scala, ma l’intuizione della società S.A. Acquisto ed Esercizio Alberghi Savoia fu vincente fin da subito e la vicinanza alla Stazione Centrale (in quegli anni in Piazza Repubblica, poi spostata nel 1931 nella posizione attuale) premiò la vocazione business dell’hotel che divenne subito punto di riferimento per i nuovi tycoon di un’Europa in fermento.

“Lavoro in questo settore da quando avevo 14 anni. Facevo le stagioni negli hotel di Sirmione, durante l’estate, come apprendista al bar e poi di sala, ancora studiavo alla scuola alberghiera”, racconta Indiani. Dal Grand Hotel Terni di Sirmione al Biffi di Brescia per poi approdare a Londra che allora non era ancora in Europa. “Per lavorare avevo bisogno del permesso di lavoro, che non avevo. Per fortuna avevo letto sul giornale qualche giorni prima che sarebbe stato imminente l’entrata dell’Inghilterra nella Comunità Europea. Lo feci notare all’addetto all’assunzione del personale del London Hilton che mi stava facendo il colloquio, e che il work permit non era più necessario. E quella battuta, in un inglese un po’ stentato, ha cambiato tutta la mia vita. Dopo essere stato cameriere e poi chef de rang al Roof Restaurant del London Hilton, lascio quel ruolo per iscrivermi insieme ad altri ragazzi che lavoravano all’Hilton a un programma di formazione, il Management Trainer Program, che permetteva di maturare esperienze operative in tutta la filiera della ristorazione.
E dopo il Management Trainer Program arriva il Corso per corrispondenza da Chicago, con una scuola convenzionata con Hilton e la qualifica di food and beverage cost controller. “Ero l’unico della catena ad avere questa qualifica. Mi chiamarono quindi all’Hilton di Milano, dove divenni food and beverage manager. Ci rimasi sei anni per poi andare all’Hilton Cavalieri di Roma, per tre anni e mezzo, come direttore del Centro Congressi. E a quel punto ambivo a una posizione di vicedirettore in un hotel Hilton in qualche destinazione importante, Parigi, Francoforte, Londra. Ma le proposte arrivavano da destinazioni che allora non mi interessavano, molte dal Medio Oriente, Dubai, Taipei ma quarant’anni fa, Dubai non era certo come ora”.

Presidential Suite: living room.
Parte quindi per i Caraibi, a Santo Domingo, come vicedirettore di Casa De Campo. “Dopo qualche settimana, avevo capito di avere fatto una cavolata. Ero fuori dal mondo. Per chiamare casa dovevo prenotare la chiamata che magari arrivava tre ore dopo. E non sempre ero disponibile per accettarla”. Nel frattempo Casa de Campo procede con un’acquisizione di un hotel a Miami. E si trasferisce lì come esperto di ristorazione. “Ma mi cade un mito: lavorare in America in quegli anni non era come nei miei sogni. Maturo l’idea di tornare in Europa”. E ci torna, prima come direttore della ristorazione all’Hyde Park di Londra dove poi diventa direttore generale, poi come direttore generale dell’Eden di Roma di proprietà Rocco Forte, che porta a chiusura per una ristrutturazione necessaria e a una successiva riapertura, nel frattempo dirige il Palazzo della Fonte a Fiuggi, poi è direttore dell’Hotel de Berg a Ginevra. “Una reputazione straordinaria, ma l’hotel era stanco e aveva bisogno di un rilancio”.
Casa de Campo? Dopo una settimana avevo capito di avere fatto una cavolata.



Vi rimane per sette anni con un cambio di proprietà da Rocco Forte a Four Season. E poi agli inizi del 2000 arriva l’offerta come direttore generale a Villa D’Este. “Da quando frequentavo la scuola, per me gli alberghi più importanti in Italia erano il Principe di Savoia, il Grand Hotel di Roma, il Danieli a Venezia e Villa d’Este. Ci vado felice, pensando di arrivare lì alla pensione.” Ma dopo un anno arriva la proposta come direttore generale del Principe di Savoia, proprietà Dorchester Collection dopo essere stato Ciga Hotel. “Non ho dormito una settimana prima di dirgli di sì, non sapevo cosa fare ma a Villa D’Este ci ho lasciato un pezzo di cuore.”
we. Cosa ti ha portato ad accettare la proposta di Dorchester Collection?
Il fatto che Dorchester è una realtà internazionale e non ho sbagliato. Ho imparato più qui al Principe che in tutto il resto della mia carriera. Certo prima imparavo cose più operative, qui invece lo sviluppo strategico, il fatto di entrare in un mondo nuovo, le relazioni umane. Pensa a come è cambiato questo comparto, anche dal nome. Prima si chiamava Ufficio del personale, poi Human Resources e oggi People and Culture– Persone e cultura aziendale. E per noi, del Principe, e per il Gruppo entrambi sono importantissimi. E cosa fa del resto un direttore d’albergo se non essere il custode degli standard di una compagnia? Il brand identity è di fondamentale importanza.
we. Vent’anni alla guida del Principe: hai assistito a cambiamenti epocali della città e dell’ospitalità.
Milano è cambiata radicalmente. E di conseguenza anche l’ospitalità. Venti anni fa, si lavorava quattro giorni alla settimana, mentre il venerdì, sabato e domenica l’occupazione era molto bassa. Oggi, in alcuni periodi dell’anno quasi lavoriamo di più durante il week end. Per non parlare di Agosto. Un tempo Milano in quel periodo si fermava, oggi molti ristoranti e boutique rimangono aperti. Un tempo ad Agosto la nostra occupazione era del 20%, oggi siamo al 42.
Inoltre la tipologia della clientela è cambiata, più leisure, soprattutto dopo l’Expo, complice anche la Brexit che ha portato in Italia alt spendenti stranieri e soprattutto l’Alta Velocità che ti permette di essere a Venezia, Firenze, Roma, a Lugano in tempi più brevi rispetto al passato. Se prima Milano era una tappa necessaria per raggiungere il Lago di Como, soprattutto per gli americani, oggi è meta turistica, con soggiorni che da una passano a tre notti. E pensiamo poi anche all’indotto che ruota intorno al mondo della moda, che ha avuto una crescita esponenziale in questi ultimi vent’anni, al cinema, al design, ai concerti di artisti internazionali. E qui al Principe ci passano tutti.
we. Qualche nome?
Madonna, Lady Gaga, Eminem, Sylvester Stallone con cui ho simulato un incontro di boxe nella Presidential Suite, George Clooney, Dustin Hoffman, Johnny Deep, i Rolling Stones con i quali ho visto una finale dei mondiali e abbiamo brindato con champagne alla vittoria dell’Italia. Ma anche molti calciatori, Messi, Ronaldo, David Beckham che a vissuto qui durante il suo ingaggio al Milano. Gentilissimo e un vero professionista. Era il nostro orologio della mattina, tutti i giorni quando usciva per andare ad allenarsi sapevamo che erano le 8 in punto.


we. Per cosa consiglieresti il Principe di Savoia?
Per molte cose, dalla posizione invidiabile, posteggio comodo, ottimo food&beverage, per il Club10, il centro fitness con formula membership all’ultimo piano, le sale meeting tra le più belle della città, per la qualità delle camere, ma in particolare per l’attitudine del personale. La filosofia del Dorchester Collection è investire tantissimo sulla formazione del personale e creare l’ambiente giusto per farlo crescere professionalmente e anche per farlo sentire bene. Solo un personale motivato, entusiasta di quello che fa sarà in grado di rendere il soggiorno dell’ospite meraviglioso, superando le sue aspettative.

we. Qualche anticipazione sul futuro del Principe.
Abbiamo in programma una ristrutturazione importante che prevede la realizzazione di un ristorante sul rooftop, la riduzione del numero delle camere, che ora sono 300, a favore di un aumento della superficie utile per camera. Che è quello che chiede il mercato. Il brief che abbiamo dato allo studio di progettazione è stato quello di rispettare l’anima del Principe, di non essere troppo moderni ma adottare un linguaggio contemporaneo che si sposi con l’hotel. E soprattutto deve venire fuori l’essenza di Milano.


we. Di cosa vai particolarmente orgoglioso nella conduzione del Principe in questi venti anni?
Del gruppo di lavoro che ho creato intorno a me, che condivide la mia filosofia e quella aziendale, al quale chiedo capacità tecnica per assolvere i vari compiti ma soprattutto l’attitudine al dialogo con i colleghi
Negli anni ho imparato che la cosa più importante è creare un gruppo forte e coeso a cui poter delegare. Se non deleghi non vai da nessuna parte.
we. Grazie, Ezio.
ph. credit Courtesy Dorchester Collection.
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In apertura: la facciata del Principe di Savoia, progettato nel 1927 dall’architetto Cesare Tenca.
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