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Il riconoscimento dell’Unesco consacra la cucina italiana come patrimonio culturale immateriale. Ma cosa significa davvero, oggi, in un Paese che cambia ritmi, abitudini domestiche e modi di mangiare fuori casa? La sfida non è celebrare, ma custodire e rendere vivo un patrimonio collettivo.

L’Unesco ha ufficialmente riconosciuto la cucina italiana come un faro culturale. L’annuncio, fatto lo scorso 10 dicembre durante l’assemblea dell’Unesco a New Delhi, comporta che la cucina italiana nella sua interezza, e non per una singola tradizione o ricetta, è iscritta nella prestigiosa lista del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità.

Suggestive e bene articolate le dichiarazioni dell’Unesco volte ad argomentare la decisione presa. L’Unesco ha descritto la cucina italiana come un “insieme culturale e sociale di tradizioni culinarie” e un modo per “prendersi cura di sé e degli altri, esprimere amore e riscoprire le proprie radici culturali”, offrendo alle comunità un canale per “condividere la loro storia e descrivere il mondo che le circonda”.

Inoltre, aggiunge l’Unesco, la cucina italiana “è un’attività comunitaria che sottolinea l’intimità con il cibo, il rispetto per gli ingredienti e i momenti condivisi attorno al tavolo […]. Persone di tutte le età e generi partecipano, scambiandosi ricette, suggerimenti e storie, con i nonni che spesso trasmettono piatti tradizionali ai loro nipoti”.

Sì, ma adesso cosa accadrà? La cucina italiana è nella lista del Patrimonio Immateriale dell’Umanità; e allora? Evviva! Ci aspettiamo già a partire dall’anno 2026 un maggior numero di turisti che vengono nel Bel Paese.

Nel mentre, però, è proprio il Bel Paese che sta gradualmente trasformandosi.

Nelle famiglie mutano i ritmi quotidiani e conseguentemente c’è un approccio diverso alla cucina. Dove si cucina più, specialmente nei giorni lavorativi, seguendo la ricetta non diciamo neanche più della nonna, ma almeno della mamma? E, domanda nella domanda: ma siamo sicuri che la mamma cucinava secondo le ricette della sua mamma? Non è che questa mamma era il prototipo della “non casalinga”? Non è che questa mamma appartenne alla generazione delle “donne che lavorano”?

Posto che la rottura non sia stata drastica e che ancora sia salva la ritualità del pranzo domenicale in famiglia, in questo “dì di festa”, si esegue la ricetta di famiglia?! Si ha ancora padronanza dei gesti lenti? Si ha contezza che la preparazione del piatto non può non essere complessa, cosa diversa dal “difficile”?!

Evidentemente si fa maggiore ricorso all’outsourcing: la pasta fatta in casa non la si fa in casa (contraddizione in termini) e magari anche il sugo, suvvia si compra a scaffale, tanto è buono uguale! E magari l’atto di acquisto (acquisto selettivo e non improvvido) è avvenuto mediante e-commerce. La stessa ricetta, opportunamente rivisitata a intendere adeguata ai gusti odierni, la scovo in rete. Impiego un minor tempo a cucinare e poi, dopo lo sbarazzo, vuoi mettere la comodità della lavastoviglie??

In questo scenario, diciamocelo apertamente, ma siamo proprio certi che la cucina italiana continua a rappresentare quel patrimonio condiviso oggi riconosciuto dall’Unesco? Evidentemente oggi la sua vitalità si espleta soprattutto nella sua capacità di rendersi attuale e attrattiva alle nuove generazioni. Il cimento è arduo: parlare alle giovani generazioni adoperando il loro linguaggio e lasciando che i tempi di dialogo siano da loro scanditi, ma senza che ciò comporti, sorta di compromesso scellerato, annacquare lo spessore culturale che è nella cucina italiana o, meglio ancora, che è la Cucina Italiana. Sin qui lo scenario domestico, già ragionevolmente ridotto al solo pranzo domenicale.

E per quanto riguarda il “mangiare fuori casa”?

Nelle giovani generazioni dilaga la cosiddetta ristorazione rapida. Dove si incontrano i giovani, ancor più oramai che nelle pizzerie? Forse li troviamo nei sushi bar? Nei bistrot, nei cocktail bar? Eccolo il rischio: l’appiattimento del cibo italiano a causa di melanconica omologazione.

Attenzione, non ci si sta opponendo a quelle che da almeno un paio di millenni, con vistosa accentuazione negli ultimi otto secoli, sono state le contaminazioni virtuose abilitate dai traffici nel Mediterraneo, soprattutto da est a ovest. Queste contaminazioni che scientemente ribadiamo essere state “virtuose” hanno concorso a “fare” la cucina italiana e di ciò siamo orgogliosi. Qui stiamo solo lanciando warning (segnale di pericolo) sul già citato rischio dell’appiattimento del gusto e quindi dell’omologazione a un quick food, consumato il quale, manco ci si ricorda più cosa fosse e come era stato preparato!

Eh, no! La nostra cucina, la Cucina Italiana Patrimonio Immateriale dell’Umanità, non è solo un insieme di piatti. La Cucina Italiana è cultura materiale sedimentatasi nei millenni, è modello sociale, è artefice di lettura ragionata del nostro territorio.

Il riconoscimento Unesco, insomma, è un punto di partenza, giammai va inteso come punto di arrivo. Il riconoscimento Unesco deve fungere da sprone a ché si agisca consapevolmente per preservare e valorizzare questo straordinario Patrimonio Immateriale dell’Umanità.

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